Ciascuno ha le sue spiegazioni per la malattia insana dell'andar su ruote, perché infinite sono le esperienze alternative che la bici riesce a sintetizzare. C'é il viaggio come leggerezza, come nomadismo esistenziale ed eliminazione del superfluo, raccontato per esempio da Marco Aime nell'attraversamento del Sahel. Ci sono la lentezza e la memoria, descritte da Giulio Mozzi, scrittore padovano che ha percorso l'Italia a piedi. Ci sono la fuga e la solitudine negli elementi, come ha saputo dire quel lupo solitario che è lo skipper Paolo Rizzi dopo un naufragio in mezzo all'Atlantico. O il viaggio come introspezione, il pellegrinaggio talvolta penitenziale di Werner Herzog e Peter Handke.
Il mio vecchio torpedone mi dà tutto questo e altro ancora. Il viaggio come moviola di immagini mi porta a Roger Depardon, reporter francese. O a Patrizio Esposito, originalissimo fotografo e raccontatore napoletano. E c'é il viaggio all'antica, come sa fare regalmente Detalmo Pirzio Biroli, friulano discendente di Savorgnan di Brazzà, che sulla soglia dei novanta andava ancora in Africa per mesi. E l'andare come vagabondaggio, alla Chatwin, che teorizza l'utilità di sbagliar strada, di non avere una mappa e nemmeno una meta; come Franco Perlotto, alpinista esploratore. O il viaggio come narrazione, andatura che diventa ritmo del racconto e quindi scrittura, alla maniera di Claudio Magris in Danubio. E ancora, l'itinerario come ricerca, atto mistico, sballo, terapia.
Rumiz, P. (2002) Tre uomini in bicicletta. Milano: Feltrinelli.
Il più incredibile viaggiatore su ruote del pianeta è il minatore in pensione Leonid Vladimirovic Kravcuk. È ucraino, ha 55 anni, e il professor Romano Prodi, ciclista e presidente dell’Unione, dovrebbe dargli il visto ad honorem per fargli fare l’unico viaggio che non ha mai fatto nello spazio eurasiatico, le terre dei ricchi, quelle dell’unione. Il suo sellino – anzi la sua sella – è in pelle d’orso. Sotto la stanga, un contenitore di carte geografiche e quadernoni di appunti pesante da solo come tutto il nostro carico. Viene da Lugansk, un posto noto, forse non a caso, per le più potenti locomotive del mondo. Ogni anno dall’86 fa un viaggio di due mesi. Ha percorso la Siberia, i Monti Altai, l’Afghanistan. Quest’anno fa il giro del Mar Nero e della Turchia.
Dorme dove capita, alza la tenda in mezzo ai campi, si prepara un minestrone, dorme come una pietra, poi lo svegliano le greggi. Ci guarda con gli occhi tranquilli, color dell’acqua. È chiaro, è lui il Mahatma, il guru. “Un cosacco vero” mormora Altan con reverenza. Un nomade della steppa, che subito ci fa sentire strani, con le nostre tecnologie, l’affusto superleggero, il molleggio sotto le chiappe e il manubrio carenato. Lo invitiamo a pranzo perché ci racconti le sue avventure. Viva Leonid, il tuo viaggio umilia i culetti color fucsia imbottiti di chimica; dice che la bici, boia d’un mondo, è un’altra cosa.
Rumiz, P. (2002) Tre uomini in bicicletta. Milano: Feltrinelli.